Ricordo della nascita del figlio

Trascriviamo qui di seguito il ricordo del maestro Bugamelli sulla nascita del figlio tratto dal dattiloscritto a piè di pagina

Dedicata a mio figlio Pier Giorgio

Il dramma di una nascita

La notte del martedì 21 Marzo 1944 la mamma mi svegliò molto preoccu­pata dicendo:

Babbo, sto perdendo molto sangue che non riesco a tamponare. Prova ad andare dal Dottore Casini-Ropa a Riola per vedere cosa posso fare per fermare l’emorragia. Ricordati di dirgli che abbiamo in casa delle fiale per iniezioni di “Zimema” per fermare l’emorragia.”

Mi vestii in fretta piuttosto di pesante per combattere il freddo an­cora molto pungente e via a balzelloni per la discesa di casa Valente.

Erano le due e trenta o poco più, la notte molto buia, senza luna.

La neve marzolina caduta qualche giorno prima, non era sparita del tutto, segnava nel terreno i tratti elevati bianchi da quelli scuri, dove si po­teva camminare meglio.

Scendevo in fretta, ma con una certa circospezione, avevo evitato nel­la discesa il boschetto dell”Archetta”, dove c’era un presidio tedesco vigilante di giorno e di notte, mi tenevo vicino alla discesa di “Casa Linaro” e nel camminare con i miei scarponi con grosse suole di gomma cercavo di fare il minor rumore possibile.

In un attimo arrivai a Riola, passato il ponte sul Limentra mi senti­vo più sicuro. Sopra la farmacia abitava il Dott. Casini-Ropa, che chiama­to mi venne subito incontro ed ascoltò quanto accaduto, poi mi disse:

“Provi a recarsi dalla levatrice, la figlia di Mingarelli il cantoniere delle ferrovie, che abita a Ca’ Dorsino. Solo lei può dire quello che è più opportuno fare. In caso verremo su a Vimignano

La casa del cantoniere a “Casa Dorsino” era vicino al Marano, bisogna­va fare la strada nazionale che costeggia la ferrovia verso Porretta.

Non ostante i pericoli del coprifuoco, molto severi, m’incamminai spe­dito e fiducioso verso la casa della levatrice Mingarelli. Passai l’abita­to di Riola a passo veloce, quasi correndo: porte chiuse, finestre sbarra­te, nessuna luce anche tenue filtrava, anche la ferrovia silenziosa e buia con pali e legname rizzato alla rinfusa, silenzio assoluto.

Pareva un paese surrealista.

Ogni tanto lungo strada sentivo venire di lontano il rumore di auto­carri che si avvicinavano sferragliando, erano camion tedeschi, andavano tutti verso Porretta, trasportavano varia merce di rifornimento, forse razziata qua e là.

Prima che si avvicinassero troppo, passavo e saltavo la siepe strada­le, mi accovacciavo bocconi sdraiato nella cunetta in modo da essere tut­to coperto e non essere scorto dalla luce dei fanali dei camion. A volte erano anche due camion a breve distanza.

Sugli autocarri, oltre la luce dei fanali anteriori c’erano dei fari laterali per illuminare la strada a destra e a sinistra. Sopra gli auto­carri due mitragliatrici con due soldati in posizione. Viaggiavano sempre al centro della strada.

Quel pezzo di strada mi parve eternamente lungo. Arrivato al casello del cantoniere Mingarelli, passai alla parte interna verso la ferrovia dove c’era l’entrata, bussai più volte, chiamai a tratti con insistenza. Nel silenzio assoluto mi pareva che la mia voce avesse una risonanza enorme. Nessuno rispondeva, era forse la paura che potesse essere qualche partigiano sbandato o tedeschi della S.S. in ispezione a luoghi sospetti.

Finalmente dalla finestra socchiusa sentii la voce di Mingarelli.

Mi riconobbe. Saputo di che si trattava mi disse che sua figlia era rimasta a Porretta presso l’Ospedale e ritornava a casa solo alla fine della settimana.

Ritornato dal Dottor Casini-Ropa riferii. Decidemmo di far venire la mamma a Riola e portarla a Bologna con qualsiasi mezzo. Non c’era migliore soluzione. Erano in pericolo due vite: quella della mamma e del bimbo o bimba che portava in seno, poiché doveva sottoporsi all’operazione cesarea, come per gli altri due parti precedenti.

Quando risalii la scorciatoia per tornare a Vimignano cominciava già a far giorno. Vista la gravità del fatto e la necessità di risolverlo al più presto, il nonno Pierino in un batter d’occhio, aveva già attaccato il cavallo al calesse e via verso Riola nella speranza di trovare un mezzo di trasporto opportuno per portarci a Bologna.

Arrivammo nel piazzale della stazione di Riola. Da poco era partito un merci con materiale per i tedeschi, con una sola carrozza viaggiatori stipata per i lavoratori. Non c’erano altri treni in mattinata e la ferrovia funzionava male perché danneggiata dalle bombe.

Finalmente arrivò un camion tedesco che doveva far benzina da Ermogene, mi avvicinai e riferii il mio caso che era molto urgente. Questi due tedeschi un po’ a parole, ma più a segni mi dissero che avrebbero accompagnato me e mia moglie solo fino all’entrata di Casalecchio. Per il compenso dovevo acquistare da loro un paio di copertoni da bicicletta e dare subito Lire Duecento.

Avvenuto il pagamento buttai i due copertoni dentro la porta di Ermogene, facemmo accomodare la mamma nella cabina assieme ai due soldati.

Io stavo nel cassone dietro, dove c’era varie cassette semivuote di generi alimentari e partimmo verso Bologna.

Quel viaggio fu terribile: la strada pessima, tutta buche, l’autocarro dava scossoni e sussulti, forse dalle balestre troppo rigide.

Mi venivano conati di vomito violentissimi, ma non potevo rimettere niente perché in quel momento mi accorsi che per la fretta e con l’ansia, non avevo mangiato niente. In alcune cassette del camion c’erano delle mele e arance, cercai lentamente mangiarne qualcuna per frenare gli stimoli del vomito. Per un pò andò bene, ma poi ricominciarono gli sforzi e dovetti rimettere tutto.

Si arrivò a Casalecchio, l’autocarro si fermò nel punto dove c’era lo stabilimento della Bourjois. Scendemmo, ringraziammo di nuovo i due militari (mi accorsi che uno parlava anche francese, rosso di capelli, forse era un alsaziano, l’altro era uno slavo) ci incamminammo lentamente a piedi verso la Croce di Casalecchio dove si era rifugiata la mia famiglia.

Il nostro arrivo suscitò sorpresa e meraviglia per le difficoltà ed i pericoli incontrati e con la Lea in quelle condizioni. Intanto che si riposava, rifocillava e si metteva in ordine, io andai alla ricerca di un telefono pubblico per annunciare alla clinica del prof. Bacialli del nostro arrivo e per una visita urgente. Mi rispose il Prof. Quinto che fissò la visita alle ore 11,45 appena finito il giro delle visite alla Clinica. Mi sentivo assai rinfrancato dalla presenza dei miei familiari, per le cure affettuose ricevute dalla famiglia Rizzi, cugina della nonna Elena, che avevano ospitato i miei, dopo il secondo bombardamento, che aveva distrutto e disperso quanto era rimasto della casa, ma avevano,per fortuna, salvata la vita.

Dopo essermi lavato, cambiato e rifocillato, aspettammo il primo tramway di passaggio dalla Croce di Casalecchio verso Bologna. Nel momento che si stava per arrivare in Piazza Malpighi, risuonò lugubre la sirena dell’allarme. Scendemmo alla svelta e corremmo per Via Portanova fino al rifugio della Prefettura. Finito l’allarme ci incamminammo lentamente e con grande fatica verso Via Farini 26 dalla zia Giulia ed Augusta. Dovevo sostenere la Lea stanca ed impaurita, ma con grande forza d’animo resisteva silenziosa. Appena arrivati in Via Farini, la Lea ricevette conforto e incoraggiamento, ma aveva ancora paura dell’allarme e temeva di arrivare tardi per la visita del Prof. Baciallí nel quale aveva tanta fiducia. Al volo prendemmo un auto per arrivare alla clinica del Gozzadini. Mentre aspettavamo nell’atrio di entrata del “Gozzadini”, assistemmo ad uno spettacolo orrendo, terrificante. Arrivavano di continuo autoambulanze e auto private che scaricavano in barelle, persone orrendamente mutilate ferite, addirittura a pezzi, causa il bombardamento della mattinata. Il sangue colava lasciando nell’atrio rivoli e macchie rosse. Tutti i medici e infermieri dovevano essere disponibili per curare questi casi di emergenza. Il vicino pronto soccorso di S. Orsola, era ormai saturo di feriti e li smistava presso le altre cliniche. Gruppi di parenti piangenti e im-pauriti chiedevano notizie dei loro cari. Per la gran parte venivano venivano dalla periferia, specialmente dalle zone industriali di Bologna: fuori Galliera, Lame, Saffi. Uscimmo perché la Lea alla vista di questo orrendo spettacolo pareva svenisse. Ci fermammo presso la gelateria di fronte al Gozzadini, che avevano proprio inaugurato per S. Giuseppe. Aveva voglia di gustare un gelato semifreddo. Cominciò con uno, poi con un altro ed un altro ancora di differente qualità e sapore. Questo fatto era riuscito a scaricare l’ansia che si era accumulata con tante prove, talchè in un momento di relax, esclamò con tono tra il faceto e il serio: ” Se morirò, almeno, mi sono cavata la voglia del gelato !” La rincuorai come potei, con le parole migliori, dicendole che avesse fiducia, oramai era in buone mani e tutto sarebbe andato bene, come le altre due volte precedenti.

Rientrammo che da un po’ era suonato mezzogiorno e in un momento di schiarita riuscimmo a vedere il Prof. Quinto per accompagnare la Lea dal Prof. Bacialli in ambulatorio. La visita fu accurata e minuziosa, alla fine mi fece entrare e ci disse che il parto non era ancora giunto alla fine, ci volevano ancora, secondo lui, 4 settimane, circa un mese. Ritornasse in clinica fra un mese, che era più sicura allontanarsi dalla città, per evitare i frequenti bombardamenti. A questa drastica diagnosi, la mamma insorse con un vigore e forza inaspettata, con un tono di voce implorante, ma deciso, spiccicando bene le parole, disse:

“Mi tengano qui in clinica a Bologna fino al parto. Se torno al mio paese, non mi sarà più possibile ritornare a Bologna. Da Vergato non si passerà più, il fronte dei tedeschi si sta chiudendo e non sarà facile passare. Si perderà quel che deve nascere ed anch’io me ne andrò” Ho altre due bimbe a casa che mi aspettano! Lei conosce il mio caso, Mi salvi, professore!”

Queste parole così appassionate e dette quasi singhiozzando, riuscirono a convincere e commuovere il Prof. Bacialli, che, consultatosi col Prof. Quinto presente, reputò tenere la mamma nella clinica in osservazione. Assegnato il letto, la Lea mi disse di portarle qualche effetto personale indispensabile, ma soprattutto andassi alla Chiesa di San Salvatore per ritirare “una particola” detta di S. Francesco di Paola, una devozione e preghiera per le partorienti, che aveva già fatto le altre due volte. Rinfrancato per aver visto la Lea riposare nel letto della clinica, che finalmente era in buone mani, mi avviai di buon passo verso il centro. Alla Chiesa di S. Salvatore ritirai l’ostia speciale per le partorienti in difficoltà, come aveva detto la Lea e poichè era adiacente a Piazza Malpighi, ritornai a vedere dove erano cadute le bombe.

Qui dovetti subire un altro spettacolo orrendo che mi si parò innanzi alla vista. I tramway colti in pieno da un grappolo di bombe giacevano sventrati, rovesciati, uno sull’altro. Le rotaie sollevate ad arco dal terreno. La chiesa di S. Francesco e I palazzo della Finanza di nuovo colpiti con larghi squarci. Il portico dove si sostava in attesa del “vaporino” con la sala d’aspetto distrutti completamente. Uno sguardo alla colonna dell’Immacolata, era ancora eretta, ma tutta scheggiata nella base robusta e nella colonna. La “Portanova”, poggiata su un fianco ove era appoggiata alla casa distrutta. Come potei, arrivai alla Croce di Casalecchio. Non ne potevo più. Presi un brodo caldo ristoratore, poi andai a letto, per sopire le troppe ansie e le emozioni di quella lunga giornata.

Mi risvegliai verso sera, mi dolevano ancora tutti i muscoli e le ossa per la fatica di quel giorno. Seppi che le mie sorelle erano già state alla Maternità della Clinica Gozzadini per portare quanto mia moglie aveva richiesto. Mi consultai con i miei sul da farsi: se ritornare subito a Vimignano dove c’erano le altre due bimbe Mariangela e Marilena presso la nonna, che mi aspettavano; oppure ripartire il mattino seguente dopo essermi riposato la notte. I miei familiari desideravano che io stessi qualche ora con loro ed anch’io avevo piacere restare con i miei per scambiarci i nostri pensieri e propositi sulla situazione del momento, come poterci difendere in quei terribili frangenti della guerra, dei bombardamenti e dei rastrellamenti. Dopo cena ci riunimmo accanto al focolare della famiglia Rimai a conversare sulla situazione presente. Il vedere la mia cara mamma sempre premurosa, paziente ed anche la più serena, non ostante le dure prove dei bombardamenti che avevano distrutto e disperso tutto. Il vedere le mie sorelle e mio fratello vicini affettuosi e premurosi, questo calore affettivo mi dava grande conforto, e ne avevo bisogno. Si parlò della triste situazione venutasi a creare dopo la caduta del governo fascista del 25 Luglio 1943; dell’armistizio di guerra dell’8 settembre 1943 e del relativo sbandamento dell’esercito. Visto il pericolo, molta gente ormai sfollava dalla città per trasferirsi in montagna, credendosi più sicuri. Chi poteva trasferiva mobili, merci e averi, ma chi aveva un lavoro in città, come Armando, non poteva farlo. Si aspettava che il fronte degli alleati passasse rapido, sfondando la “Linea gotica”, che i tedeschi si ritirassero oltre il Po. Inoltre in montagna, sul nostro Appennino, al confine con la Toscana erano avvenute azioni di guerriglia e rappresaglia, dopo lo sbandamento dell’esercito regolare, fra partigiani e tedeschi della S.S. Feci loro coraggio perché erano proprio impauriti e dubbiosi non sapendo cosa fare per salvarsi dai pericoli della guerra. Accettassero pure l’ospitalità della famiglia Rizzi, che era una Provvidenza del cielo. Ci promettemmo di stare in contatto e di tenerci informati reciprocamente, con ogni mezzo, oltre la posta, che funzionava irregolarmente. Il mattino seguente, 23 Marzo, molto presto partii col primo treno alla volta di Riola e poi a piedi verso Vimignano. La salita fu meno veloce della discesa del giorno precedente, ma pure arrancavo sollecito desideroso di rivedere le mie due bimbe lasciate alla nonna, i ragazzi della scuola e dare notizie della Lea ai nonni e parenti.

Potei solo ritornare a Bologna la domenica mattina 26 marzo. A CasaIecchio seppi dalle mie sorelle che il giorno prima, sabato mattina, la Lea stava benino e che tutto era regolare. Subito mi precipitai alla Clinica per vedere la Lea e qui avvenne il più curioso dialogo e sorpresa che si possa immaginare.

Chiesi al portiere:  Vorrei andare a visitare quella signora in cura dal prof.Bacialli, che deve partorire.

– Ha partorito – mi rispose – mentre sfogliava uno schedario.

– No – risposi – il professore dice che ci vorrà ancora un mese.

– Ha già partorito – replicò – mentre continuava fare il suo lavoro.

– Ma insomma – insisto io .un po’ seccato – Mi sa dire almeno se è nato un maschietto una femmina?

– Non vede là appesi quei cinque nastri tutti azzurri ? Sono i nati di ieri.

Al sentire quella notizia, non ci pensai due volte, corsi giù per le scale con tutta la velocità che potevo, per andare nel sotterraneo dove avevano sistemato le partorienti. Per un po’ mi corse dietro il portiere e mandò anche un infermiere che gridavano: Non si può adesso, perché è l’ora della visita dei medici! Ma io correvo più forte di loro ed arrivai nella corsia delle partorienti che avevo il fiato grosso.

Mi condussero nel sottoscala dell’ascensore tutto blindato da travi di legno oblique, che serviva da rifugio e dovetti chinare la testa per entrare. La Lea aveva partorito la sera precedente, il sabato 25 Marzo. In quella penombra intravidi la Lea. Negli occhi suoi grandi e luminosi, brillavano sotto le sue folte sopraccigli, nella poca luce del sottoscala blindato. Al vedermi comparire così improvviso, la mamma si era commossa e piangeva silenziosamente. Dopo aver baciato e ribaciato la mia cara sposa, chiedemmo ci fosse portato il bambino. Entrò la caposala e con molti complimenti posò il bimbo nelle braccia della mamma. Mentre ammiravamo il nostro frugoletto, la mamma mi guardò negli occhi e, con la voce velata dalla commozione, ma con dolcezza infinita, mi disse: “Ecco, caro babbo, il maschietto tanto desiderato che ho voluto portare a compimento, non ostante tutte le difficoltà, le avversità  materiali, e le pressioni morali. Il Signore mi ha premiata, ha voluto che venisse alla luce sano e bello”. Appena lo ebbi tra le braccia con un gesto spontaneo e inconsapevole lo innalzai felice, come un atto di propiziazione e ringraziamento perché il Signore lo benedicesse e fosse, assieme alle sue sorelline, la gioia e il conforto della nostra vita.

Quel bimbo che aveva già dato tante sofferenze e ansie, ma per questo già tanto amato, eri tu Pier Giorgio!

il tuo babbo Giuseppe

Trascrivo le notizie  della nascita: Pier Giorgio nato il 25 marzo 1944 alle ore 18,30 con parto cesareo. Il peso era di Kg. 2,185, altezza cm 48; molto mingherlino ma vivacissimo. L’operazione fatta dal Prof. Quinto con gli assistenti: Macciotta, Zambonini. E’ stato battezzato da Don Luciano Gherardi nella Cappella della Clinica con i nomi di Pier Giorgio Luigi il giorno 2 Aprile, Domenica delle Palme Poco dopo aver preso la particola consacrata di S.Francesco di Paola, la mamma sentì i dolori e la operarono subito d’urgenza che era già sera. Era un parto prematuro.